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PSICOLOGIA DEI COSTRUTTI PERSONALI E PSICOLOGIA DEI SE’: due teorie a confronto

Dopo aver illustrato nel precedente articolo le basi fondanti del paradigma della Psicologia dei Sé, in questa seconda parte mi accingo a rintracciare punti di contatto e differenze fondamentali con quello che è attualmente il mio approccio teorico di riferimento: la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) di George Kelly. Data la vastità del tema, il raffronto avverrà in modo sintetico su macro-aree, a partire dalle quali è possibile svolgere ulteriori considerazioni più dettagliate e specifiche.

Presupposti teorici

Per poter effettuare un parallelo fra teorie che poggi su considerazioni pertinenti, è importante mettere a confronto i presupposti su cui esse si fondano.

I principi basilari del Costruttivismo sono descritti da George Kelly nel suo “The Psychology of Personal Construct” (1955); di seguito ne illustro rapidamente gli aspetti fondamentali correlati con il confronto fra teorie che ci interessa.

Definizione di persona e sviluppo

Kelly espone attraverso la PCP la sua idea di “uomo-scienziato” per valorizzare le componenti attive e creative dell’essere umano: lo scopo principale di ciascuno è attribuire significato agli eventi che lo riguardano, per poter esercitare un controllo e fare previsioni su ciò che accadrà con un margine di errore minimo. Ognuno si costruisce un personale sistema di “costrutti bipolari”, per mezzo del quale interpreta la realtà. Esso può cambiare nel tempo e modificarsi sulla base della verifica della sua efficacia predittiva, a cui viene sottoposto continuamente dall’esperienza. Le origini di tale sistema sono da rintracciare secondo alcuni autori nel rapporto che il neonato instaura con la figura di accudimento.

“Il processo di costruzione, da parte del bambino, del sistema di costrutti della madre, costituisce il trampolino di lancio per lo sviluppo del suo sistema di costruzione. I bambini partono da questo e lo utilizzano nelle loro relazioni con gli altri.” (Bannister, Fransella, 1986)

La Psicologia dei Sé non si focalizza allo stesso modo sull’unicità della persona, sulle sue componenti attive e il suo protagonismo nella scelta dei significati da attribuire agli eventi. Afferma infatti che l’individuo è sottoposto fin dai primi mesi di vita alle pressioni degli standard familiari e della società di appartenenza. Da queste dipenderà la strutturazione della sua personalità, in base ai Sé Primari che saranno stati incoraggiati a manifestarsi a scapito di altri Sé Rinnegati, riposti nell’ombra. Non viene considerato, in questa prima fase di sviluppo, un intervento in prima persona del soggetto nell’interpretazione della sua realtà; egli pare semplicemente subire queste imposizioni. Recupererà il suo potere decisionale da adulto, quando se vorrà e sarà in grado di compiere un percorso di autoconsapevolezza, potrà scegliere di mettere in gioco Sé Rinnegati fino ad allora.

La personalità inoltre è concepita come frammentata in potenzialmente infiniti Sé (riprendendo una concezione dualistica e pluralistica) che come entità a sé stanti agiscono sul soggetto (in posizione passiva) limitando la gamma delle sue scelte a ciò che lo mantiene protetto e sicuro. Soggetto ugualmente in balia delle forze e delle energie nascoste dei Sé Rinnegati, che premono per venire ascoltati e soddisfatti.

Costruttivismo-Escher

Il disturbo e le possibilità di cambiamento

Nel Costruttivismo il focus dell’attenzione si sposta dal concetto classico di disturbo e dalle categorizzazioni dei sintomi, all’interpretazione degli stessi: diventano tali perché costruiti così dalla persona che li dichiara.

Non è più di fondamentale importanza chiedersi quanto un sintomo sia vero o falso o da cosa sia provocato, ma quanto quella particolare visione delle cose sia utile o disfunzionale per la persona.

La Psicologia dei Sé in questo senso resta più legata ad un meccanismo di causa-effetto dei comportamenti umani e dei disturbi psicologici, sottolineando l’importanza di risalire all’impronta originaria del passato che ha determinato le circostanze attuali.

Il vincolo con i retaggi familiari è forte. Ciononostante, sono rintracciabili alcune somiglianze fra le due teorie.

Secondo entrambe, il motivo principale di sofferenza per le persone é non riuscire a cambiare la loro visione delle cose, come se vivessero un blocco del movimento. I coniugi Stone lo spiegano come uno sbarramento originario della possibilità di espressione di parti di se stessi (Sé Rinnegati) che sono state rifiutate perché minacciose per la vulnerabilità del bambino. Kelly lo interpreta come una rigidità del sistema di costrutti personali, bloccato nella sua capacità di anticipazione degli eventi e di ristrutturazione dell’esperienza.

Servendosi di metodologie e tecniche di intervento diverse, i due orientamenti puntano però verso un obiettivo comune: consentire, nel rapporto con il proprio terapeuta, di sperimentare nuove posizioni, fare esperienza di nuovi Sé e trovare alternative ai presenti costrutti personali che siano dotate di un significato, per ampliare il proprio repertorio di azione e le proprie opzioni di scelta.

E’ necessario mettere la persona in quella che si può definire “area di discomfort”: una condizione scomoda e al contempo sufficientemente sicura nell’ambito della terapia, che permette di accedere ad una visione più ampia e consapevole delle proprie scelte di azione (o dei Sé Primari messi in atto) e collaudare nuove opportunità, a cui si è rinunciato finora, per continuare proficuamente a fare esperienza.

Focus sul Sé come costrutto

Volgendo uno sguardo conclusivo (ma non concluso) alla specifica interpretazione del Sé in chiave costruttivista, nell’articolo “A Community of Self” (1977), Miller Mair delinea il suo punto di vista rispetto a come può essere descritto l’essere umano nella sua natura più intima e caratteristica. Utilizza “una particolare metafora dell’uomo”, specificando che si tratta solo di uno dei molti modi per costruire ed esplorare l’argomento, non di un’assunzione assolutistica con pretese di verità. Tale metafora è quella del Sé non come ente unico e individuale ma come una molteplicità di Sé differenti, una “comunità” appunto.

Può essere esperienza comune a più persone la sensazione di pensare o agire, in una determinata situazione, come se fossero chiamate in causa due o più parti diverse di se stessi, con caratteristiche spesso contrastanti.

Ponendo l’attenzione su ciascuna di esse singolarmente e successivamente mettendole a confronto e facendole “dialogare”, è possibile delineare un quadro più ampio delle modalità di costruzione personali. Secondo l’autore, questa visione fornisce una cornice di significato piuttosto flessibile per esprimere aspetti del vissuto sia individuale sia relazionale: pone l’accento sulla molteplicità di Sé co-presenti all’interno di ogni individuo, chiamato a rispondere ad una collettività dentro e fuori di sé.

Ogni persona ha quindi la possibilità di incarnare molti Sé, molti punti di vista dai quali agire, può spostarsi dall’uno all’altro cambiando prospettiva su se stesso e sugli altri, trovando nuove vie. 

L’autore infine chiarisce il costrutto di Sé così come Kelly lo ha descritto:

“un gruppo di eventi che sono simili in un certo modo e, allo stesso modo, necessariamente differenti da altri eventi” (Kelly, 1955).

Così come ogni altro costrutto, può essere usato in maniera diversa da ogni persona. Divergendo dal senso comune che vorrebbe collocare il concetto di “Sé” come “interno” alla persona e quello di “altro” come esterno (più soggettivo il primo, più oggettivo e realistico il secondo), Kelly afferma che nella PCP non c’è necessità di effettuare queste distinzioni poiché Sé e altro sono i due poli di uno stesso costrutto e si definiscono vicendevolmente.

Tale considerazione esprime la differenza fondamentale che distingue le due teorie a confronto: l’assunto degli Stone è che i molteplici Sé di cui l’uomo è espressione sono una realtà ontologica che serve per motivare passato e presente della persona.

Kelly li considera invece uno dei moltissimi modi con cui l’uomo si racconta metaforicamente, dà senso alla sua esperienza; una chiave di lettura in cui Sé e altro sono inscindibili e in dialogo reciproco non predeterminato ma costruito e ricostruito con il mutare dell’esperienza.

Conclusioni

Al termine di questo rapidissimo ping pong teorico, sottolineo quelle che a mio parere sono le due principali differenze e somiglianze fra PCP e Psicologia dei Sé.

Secondo il costruttivismo, l’uomo costruisce personalmente il significato degli eventi che lo riguardano, non essendo da essi determinato. Ciò fa sì che non sia possibile concepirlo come una vittima del proprio passato, poiché è in qualsiasi momento protagonista e abile ricostruttore della propria vita e mantiene l’imprescindibile libertà che denota la sua natura.

Nella visione della Psicologia dei Sé, i coniugi Stone sono al contrario impegnati ad individuare l’esistenza di Sé Primari e Sé Rinnegati considerandoli entità ontologiche e strettamente determinanti per l’individuo, che vive quindi in una condizione di dualismo/pluralismo deterministico in cui qualcosa causa necessariamente qualcos’altro.

Il presupposto teorico che invece avvicina di più i due orientamenti è quello del kelliano approccio credulo: quel particolare atteggiamento nei riguardi del paziente che si manifesta nel tentativo di assumere la prospettiva del cliente, di vedere il mondo con i suoi occhi, ponendo al centro la PERSONA, non tanto il DISTURBO. Ad entrambi gli approcci teorici possiamo riconoscere lo sforzo e la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per comprendere il più possibile quanto espresso, giungendo poi a metodi di intervento differenti e personalizzati.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Chiari, G. e Nuzzo, M.L. (a cura di) (1998), Con gli occhi dell’altro. Il ruolo della comprensione empatica in psicologia e in psicoterapia costruttivista. Unipress, Padova
  • Bannister, D., Fransella, F. (1986), L’uomo ricercatore, introduzione alla psicologia dei costrutti personali. Psycho Editore Martinelli & C., Firenze
  • Kelly, G. (2004), La psicologia dei costrutti personali. Teoria e personalità. Ed. italiana a cura di Marco Castiglioni. Cortina Editore, Milano
  • Mair, J.M.M. (1977), The Community of Self. In: Bannister, D., New Perspectives in Personal Construct Theory. Academic Press, London – New York – San Francisco

LA PSICOLOGIA DEI SE’: una possibile visione delle dinamiche (inter)personali

In questo articolo illustro i presupposti concettuali di un orientamento psicologico piuttosto recente (seppur le sue radici affondino in teorie cardine della storia della psicologia): la Psicologia dei Sé. Ho avuto modo di farne conoscenza durante un perfezionamento post lauream, trovandola una voce più originale rispetto alle teorie classiche proposte durante la formazione universitaria. La mia specializzazione si è poi orientata verso un approccio di tipo costruttivista; argomento del prossimo articolo sarà proprio il confronto fra diversi aspetti di questi due ambiti.

La “Psicologia dei Sé” è un quadro teorico che nasce all’inizio degli anni ’70 ad opera di due coniugi americani: Hal Stone (psicoterapeuta di formazione junghiana) e Sidra Levi Stone (psicologa clinica di stampo comportamentista). Inizialmente viene concepito come vero e proprio metodo psicoterapeutico, dotato di tecniche di intervento specifiche. I suoi ideatori però lo hanno col tempo trasformato sempre più in un metodo educativo volto alla consapevolezza di sé e allo sviluppo del potenziale umano.

Le dimensioni chiave di questa struttura teorica affondano le loro origini nei mutamenti socio-culturali e nelle nuove influenze in ambito psicologico proposte già dagli anni ’50-’60:

  • l’importanza del concetto di auto-consapevolezza, portato all’attenzione del mondo occidentale da Freud e integrato dall’interazione con le filosofie orientali;
  • il movimento per lo sviluppo del potenziale umano promosso da Maslow e dalla Psicologia Umanistica;
  • la comunicazione inter e intra personale, riconosciuta come una componente fondamentale delle relazioni umane;
  • il concetto di personalità, intesa sempre più come processo in continuo divenire e non come dimensione statica e monolitica;
  • la conseguente rilevanza attribuita dalla Psicoterapia della Gestalt (Perls) e dall’Analisi Transazionale (Berne) all’espressione e alla drammatizzazione delle varie parti della personalità.

Psicologia dei Sé

Nella visione degli autori infatti, la personalità non è un’entità psicologica unitaria ma un insieme dinamico di sub-personalità in competizione fra loro per ricevere attenzione e soddisfare i propri bisogni. Tali sub-personalità vengono suddivise in due grandi gruppi:

  • i Sé Primari, l’insieme degli atteggiamenti e comportamenti di una persona con i quali essa si è originariamente identificata. Ciò accade perché fin dai primi mesi di vita questi aspetti (ad es. altruismo, disponibilità, autocontrollo) sono stati incoraggiati ad emergere, poiché ben visti dal sistema familiare e dalla cultura di appartenenza. Una sorta di eredità collettiva di valori, modelli di azione e idee circa il genere di persona che “bisogna essere”, allo scopo di potersi garantire la sopravvivenza e una maggiore accoglienza, approvazione, protezione da parte del gruppo di appartenenza. Tali Sé sono soggettivi e differiscono nelle loro combinazioni da persona a persona; possono variare durante la vita e possono inoltre coesistere in uno stesso individuo raggruppamenti di aspetti primari diversi in ambienti differenti (sul lavoro, nella vita di coppia, nel ruolo genitoriale).
  • i Sé Rinnegati, le polarità opposte ai Sé Primari: le sub-personalità che vengono giudicate negativamente dalla famiglia, dalla società e di conseguenza anche dall’individuo (ad es. egoismo, maleducazione, espressione di certe emozioni quali rabbia o dolore) poiché rischiano di allontanarlo dal riconoscimento e dall’accettazione sociale di cui ha bisogno, specie nei primi anni di vita.

L’insieme di tutti i Sé Primari con cui una persona si identifica è denominato Ego Operativo ed è considerato una funzione esecutiva della psiche: è colui che “decide” cosa fare e come farlo, prendendo in considerazione solo le scelte automatiche concesse dai Sé dominanti.

Gli autori affermano che i Sé Primari investono molte energie per continuare a respingere le pulsioni contrapposte dei Sé Rinnegati, che vorrebbero venire alla luce e potersi esprimere liberamente. Essi rappresentano una minaccia all’ordine precostituito, agli schemi di comportamento stereotipati e prevedibili appresi nell’infanzia e messi in atto dalla persona fino a quel momento, fonte di sicurezza e accettabilità ma anche di rigidità e stasi.

Secondo la Psicologia dei Sé, la personalità di un individuo così strutturata è come se venisse espressa parzialmente, riconoscendone e coltivandone solo alcune parti ed escludendone altre che, pur rimanendo apparentemente in ombra, sono comunque attive.Le sub-personalità rinnegate infatti si possono manifestare in molti modi: nei sogni, in momenti di vita particolarmente stressanti o critici o di cambiamento, ma soprattutto nelle relazioni interpersonali intrattenute dall’individuo. Tali relazioni spesso si basano sulla proiezione dei propri Sé Rinnegati su di un’altra persona. Gli autori affermano che

“le persone che scatenano in noi forti reazioni negative sono delle rappresentanti dirette dei nostri Sé rinnegati. Analogamente, le persone verso le quali proviamo una specie di fascinazione incontrollabile, sono anch’esse rappresentazioni dirette delle nostre parti trascurate o soffocate” (Stone H. e S., 2009).

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Riassumendo: per ogni Sé Primario con cui una persona si identifica esiste almeno un Sé Rinnegato di energia uguale e opposta che spesso, non avendo il permesso di manifestarsi, è proiettato sulle altre persone con cui viene intrattenuta una relazione. Fino a quando quel particolare aspetto verrà respinto e non riconosciuto, è molto probabile che continueranno a presentarsi situazioni, incontri, relazioni caratterizzate da quel particolare tipo di energia.

I coniugi Stone non attribuiscono giudizi di valore all’uno o all’altro polo o raggruppamento di Sé (Primari o Rinnegati). Affermano che

ogni nostra energia primaria ci è stata veramente di aiuto fino ad un certo momento e dovrebbe essere onorata come tale, anche se adesso non è più particolarmente utile.

Forse in noi esiste un numero infinito di Sé. Ognuno ha qualcosa da insegnarci. Ognuno arricchisce la nostra percezione del mondo. Quanto più ci coinvolgiamo profondamente con un altro essere, tanto più la relazione sfida un numero sempre maggiore di questi Sé ad emergere in superficie ” (Stone S., 1996).

La proposta degli autori è quella di considerare il potenziale insegnamento che ogni relazione può rappresentare, mettendoci metaforicamente di fronte ad un negativo fotografico di noi stessi e consentendoci di guardare alle parti inespresse della nostra persona che sono state disconosciute e ripudiate in assoluto senza possibilità di appello.

I Sé protettivi

E’ stato detto che il numero dei Sé che possono manifestarsi in ogni persona è potenzialmente illimitato. Inoltre, il fatto che un determinato aspetto o comportamento venga espresso come Sé Primario o rifiutato come Sé Rinnegato è assolutamente soggettivo e derivante dalla cultura familiare e dalla società di appartenenza.

Ciò nonostante, i coniugi Stone ipotizzano l’esistenza di alcuni Sé Primari caratteristici globalmente diffusi, che nascono con la specifica funzione di proteggere il bambino nei primi anni di vita, in cui versa in una condizione di estrema vulnerabilità. Per questo sono denominati Sé protettivi.

  • Il Controllore: nota qual è il comportamento ricompensato dai genitori e quale quello punito, dà senso alle regole del mondo e stabilisce un vero e proprio codice di comportamento per il bambino. Se particolarmente rigido, rende difficile rimettere in discussione il proprio modo di essere.
  • Il Perfezionista: stabilisce gli standard di qualità a cui ogni aspetto della persona deve corrispondere, impeccabili ed elevati su tutti i fronti per evitare le critiche e i giudizi negativi che potrebbero provocare sofferenza. La tolleranza per la fragilità e imperfezione della natura umana è però molto ridotta e ciò può innescare nella persona autovalutazioni molto severe.
  • Il Critico interiore: in stretta collaborazione con il Perfezionista, rileva gli errori e le inadeguatezze dell’individuo prima ancora che possano farlo gli altri, sottoponendolo ad un esame di coscienza preventivo che può metterlo al riparo da ogni dispiacere. C’è il rischio che l’autostima subisca un calo considerevole, tanto da provocare una svalutazione complessiva delle potenzialità della persona (Stone H. e S., 2008).

Questi sono alcuni esempi di Sé protettivi peculiari che, se utilizzati in modo proficuo, possono aiutare durante la crescita, la conoscenza del mondo e la formazione della personalità. Al contempo, se esercitano un controllo globale sul comportamento, possono impedire alla persona di fare esperienza nella totalità dei suoi aspetti anche negativi, imperfetti e contraddittori, non rischiando nulla al di là di ciò che è conosciuto e familiare, quindi rassicurante.

Voice Dialogue - Mandala

La tecnica del Voice Dialogue

Gli Stone propongono un processo di intervento a più livelli denominato Voice Dialogue (Dialogo delle Voci). E’ una tecnica che permette di sperimentare e conoscere, in un ambiente protetto e sicuro, quali sono gli aspetti dominanti e rinnegati di una persona, quali meccanismi ripetitivi inducono a mettere in atto e cosa si può fare per consentire alle parti sommerse di venire in superficie. Tutto ciò attraverso la guida di uno psicoterapeuta, un facilitatore o un counselor appositamente formati.

Il primo passo è quello di affinare progressivamente una “visione lucida” della propria condizione, sinonimo di autoconsapevolezza. La visione lucida consente di percepire in maniera più imparziale i diversi aspetti caratterizzanti di se stessi e del proprio ambiente, divenendo maggiormente consci delle origini dei propri Sé Primari e Rinnegati e imparando a dis-identificarsi da essi.

Successivamente è importante concedersi di fare “esperienza” dei propri Sé, ovvero far manifestare in vari modi le sub-personalità: sia quelle primarie e dominanti con cui la persona si è identificata, sia quelle rinnegate che sono state messe a tacere e che cercano un canale di espressione delle loro esigenze. Ascoltando le motivazioni e le richieste di tutte, sarà possibile comprendere maggiormente le origini di certi comportamenti e lasciare sempre più spazio a quei Sé Rinnegati inizialmente considerati pericolosi, senza che costituiscano una minaccia per la propria personalità.

In ultima analisi, la tecnica propone un graduale passaggio da un Ego operativo (l’insieme di tutti i Sé Primari con cui una persona si identifica) a un Ego consapevole. Per quest’ultimo si intende un processo di consapevolezza in continuo divenire, in grado di accogliere contemporaneamente vari Sé senza giudicarli (ad es. il Sé attivista e quello pigro, il Sé altruista e quello più egoista). L’Ego consapevole è capace di gestire la tensione fra gli opposti e di operare delle scelte senza privilegiare o penalizzare a priori nessuna sub-personalità. La possibilità di essere in contatto con tutte e due le polarità che costituiscono i Sé Primari e i rispettivi Sé Rinnegati, senza che una predomini sull’altra, permette di compiere scelte più efficaci e versatili nelle differenti situazioni quotidiane e di dialogare in maniera più fluida e libera sia con se stessi sia con gli altri.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Stone, H. & S. (1996), Il Dialogo delle Voci, conoscere e integrare i nostri Sé nascosti. Amrita Edizioni, Torino
  • Stone, H. & S. (2006), La coppia viva, come prendersi cura di sé e dell’altro per crescere insieme. Edizioni Crisalide, Latina
  • Stone, H. & S. (2008), Il critico interiore. Mai più contro noi stessi! Macro Edizioni, Cesena
  • Stone, H. & S. (2009), Tu e Io: incontro, scontro e crescita nelle relazioni. Xenia Edizioni, Milano

IMMERSI NELLA NARR-AZIONE: la fiaba come strumento di conoscenza di sé

“Nelle nostre storie spingiamo noi stessi verso il divenire qualcosa di diverso da quello che siamo: impariamo ad anticipare e sperimentare possibili scenari futuri e a conquistare la visione di dove siamo stati” (Mair, 1987).

fiaba

Quanti “c’era una volta” ci consente di creare la vita? Quante e quali storie e differenti narrazioni possiamo scegliere di raccontare a noi stessi e agli altri su ciò che ha costituito la nostra esperienza passata e che, a seconda della chiave (di lettura e di scrittura) che vogliamo dargli, informerà la nostra esperienza futura? Domande retoriche forse, alle quali risposta non c’è… o meglio, ce n’è più d’una. Proprio questo è l’aspetto interessante.

Miller Mair, nell’articolo “Kelly, Bannister e una psicologia che racconta storie” (1987), afferma che

“I racconti sono l’utero della personalità, ci costruiscono e ci demoliscono. Ogni volta che scegliamo di raccontare una storia, noi diventiamo le nostre storie”.

Le studiose Ilaria Grazzani Gavazzani ed Elena Calvino (2004) aggiungono: “Alla base dell’interesse sempre più diffuso per la narrazione in ambito psico-educativo e terapeutico vi è l’assunzione condivisa (in psicologia, sociologia, antropologia…) che raccontare storie, sia di finzione sia riferite a eventi personalmente vissuti, costituisca un potentissimo strumento culturale al servizio delle numerose interazioni interpersonali della vita quotidiana”. Non solo: le autrici proseguono affermando che ciò che viene costruito attraverso la fiaba non è tanto una rappresentazione delle informazioni su di sé, quanto l’esperienza personale delle stesse. E tale costruzione non avviene in una mente isolata ma “in virtù di pratiche linguistiche culturali condivise”. Allo stesso tempo

“Il significato della narrazione risiede nel particolare punto di vista di chi la interpreta, non è univoco o dato una volta per tutte ma costruito attraverso processi interpretativi”. 

Trasponendo il concetto di storia di vita al racconto letterario, le riflessioni sono analoghe e i due ambiti risultano strettamente interconnessi.

“Le fiabe, i miti, le novelle, i racconti, parlano di noi, della storia dell’uomo, della vita di tutti i giorni così come di eventi straordinari. E lo fanno attraverso un linguaggio metaforico, fiabesco per l’appunto, che tutti sanno capire fin da piccolissimi, poiché queste trame narrative rappresentano un patrimonio multiculturale universale” (Oliverio Ferraris, 2005).

libro

FRA SIMBOLI E ARCHETIPI CULTURALI

Il mondo della fiaba costituisce uno dei primi tramiti simbolici di possibile comprensione della realtà a cui accedono i bambini, che riconoscono piuttosto facilmente nell’eroe o nella principessa, nel castello incantato o nella casetta nel bosco, una sorta di metro di misura familiare per relazionarsi con l’esterno, immedesimarsi di volta in volta in ruoli differenti e riconoscere gli stessi ruoli negli adulti che li circondano.

In ogni fiaba ricorrono modelli semplici da individuare: il buono e il cattivo, la sfida da affrontare da soli o assieme a fidi aiutanti, la vittoria del protagonista e la sconfitta dell’antagonista. Queste linee guida che caratterizzano la maggior parte della narrativa non sono solamente codici letterari ripetitivi e standardizzati. Costituiscono il fulcro su cui si regge l’intera struttura della fiaba e soprattutto la sua funzione fondamentale: rappresentare allegoricamente gli avvenimenti della vita per mezzo di un linguaggio intellegibile ai più piccoli” (Zoppei, 2003).

Ogni fiaba presenta una situazione iniziale in cui i personaggi vivono in un equilibrio momentaneo; sviluppa poi un problema, un’impresa, una prova da superare; poco a poco sviscera le differenti possibilità, anche le più ingegnose e magiche, che portano quasi senza dubbio ad una soluzione positiva del problema e ad una condizione inevitabilmente diversa da quella di partenza (non fosse altro per l’esperienza attraversata) e molto spesso migliore. Questo processo, oltre ad essere un piacevole passatempo, può condurre il bambino ad interrogarsi sulle sue stesse avventure, vicende, problematiche quotidiane e consentirgli di sperimentarsi con speranza di riuscita, per venire fuori con successo da situazioni a volte difficili o dolorose.

I bambini sono esortati ad essere creativi ed inventivi nel gestire i loro problemi e difficoltà […] permettendosi di esplorare variazioni ai loro punti di vista e comportamenti abituali attraverso l’immedesimazione nei personaggi della fiaba” (Freeman, Epston, Lobovits, 1997).

NON SOLO PER BAMBINI…

La fiaba può risultare uno strumento altrettanto utile da impiegare anche con gli adulti. Certamente con loro il tipo di attività da proporre è diverso: pensando ad esempio ad ipotesi di lavoro in ambito terapeutico, accade molto più frequentemente che al posto della fiaba tradizionale (già colma di figure archetipiche e di significati) venga utilizzata una fiaba inventata ex novo dalla persona. Nei suoi libri Guarire con una fiaba (2008) e Come raccontare una fiaba…e inventarne cento altre (2004), Paola Santagostino afferma che la fiabazione è utile come strumento conoscitivo sia per il paziente che per il terapeuta, sia per il bambino che ascolta o inventa la storia, che per l’adulto che lo accompagna in questo viaggio.

La fiaba parla dei perché, parla sempre del significato di ciò che accade”, descrivendo allegoricamente le connessioni logiche e le spiegazioni che attribuiamo agli eventi.

L’autrice prosegue con l’ipotesi-guida del suo lavoro: la fiaba che un soggetto inventa in un dato momento della sua esistenza vissuto come particolarmente problematico, potrebbe avere un’attinenza con quanto gli sta accadendo nella vita e con il modo in cui se lo spiega. Potrebbero allora generarsi storie che si interrompono bruscamente, che non riescono ad andare avanti, non a lieto fine, testimonianza non tanto dell’esistenza di difficoltà in sé, ma dell’incapacità momentanea del protagonista di superarle.

capitolo 

NARRAZIONE E VITA

Quando parliamo di favole, fiabe, miti, leggende… spalanchiamo mondi che non appartengono solo alla fantasia, ai racconti della buona notte, come siamo forse abituati a pensare. Ci addentriamo bensì nel cuore delle storie dell’umanità, delle biografie del mondo e delle auto-biografie dei suoi abitanti. Il plurale è assolutamente voluto: nonostante si possano riscontrare tratti, scenari, personaggi, origini e significati comuni e ricorrenti nei vari racconti di epoche e culture decisamente lontane, ogni storia è a sé, è leggermente diversa, è frutto della creatività di un singolo o di un popolo. Soprattutto: ogni storia può essere scritta e letta di nuovo da un punto di vista diverso, può venire modificata e assumere sfumature che gettano su di lei e sugli autori luci e sguardi che prima non c’erano, potenziali generatori di nuove storie…e così via. “Le narrazioni possono creare nuove realtà ed edificare ponti di significato inesistenti prima” (Freeman, Epston, Lobovits, 1997).

La fiaba quindi può essere qualcosa di più di un intrattenimento serale per piccoli e grandi: può facilitare ad approcciare un eventuale problema da un’angolatura differente e aiuta a sfruttare in pieno la creatività nel cercare le soluzioni. Fa uscire per un momento dagli schemi logico-razionali privilegiando un altro livello, quello fantastico, in cui è possibile avere intuizioni, scoprire soluzioni non pensate prima, possibili ed applicabili. Non si tratta di una mera interpretazione dei simboli a livello archetipico o mitologico, ma della comprensione profonda del significato che quella fiaba ha in quel momento per l’individuo che l’ha creata o che desidera ascoltarla.

“L’immaginazione favorisce un ampliamento degli orizzonti: consente di rappresentarsi le cose non solo come sono ma anche come potrebbero essere, permette di esaminare virtualmente un avvenimento ed anticipare quali potrebbero essere reazioni e conseguenze, facilitando la presa di decisione. Certo la realtà è diversa dalla finzione, ma immaginandosela (anticipandola) il bambino (e l’adulto) si prepara ad affrontarla” (Oliverio Ferraris, 2005).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Freeman, J., Epston, D., Lobovitz, D. (1997), About Narrative Therapy with children. In www.narrativeapproaches.com
  • Gavazzani, I., Calvino, E. (2004), Competenze comunicative e linguistiche. Aspetti teorici e concezioni evolutive. Franco Angeli Editore, Milano
  • Mair, M. (1987), Kelly, Bannister e una psicologia che racconta storie. Traduzione italiana di E. Minissi. Intervento presentato al VII Convegno di Psicologia dei Costrutti Personali, Memphis, Tennessee, U.S.A.
  • Mair, M. (1988), Psychology as Story Telling. In International Journal of Personal Construct Psychology, London
  • Oliverio Ferraris, A. (2005), Prova con una storia. Fabbri Editori, Milano
  • Santagostino, P. (2004), Come raccontare una fiaba…e inventarne cento altre. Red Edizioni, Milano
  • Santagostino, P. (2008), Guarire con una fiaba. Usare l’immaginario per curarsi. Feltrinelli Editore, Milano
  • Zoppei, E. (2003), Laboratorio di lettura. Metodi e tecniche di animazione del libro Mondadori Editore, Milano

PREVENZIONE: UN SISTEMA COMPLESSO DI ATTORI IN GIOCO

E’ di questi giorni l’ennesimo (purtroppo) caso di cronaca relativo a maltrattamenti all’interno di strutture di accoglienza per persone con differenti problematiche, in questo caso un centro per la disabilità:

“Disabili segregati e picchiati in un centro di riabilitazione in provincia di Roma”

Verso la fine dell’articolo, resto colpita dalle affermazioni del Ministro della salute Beatrice Lorenzin:

“…E’ di fondamentale importanza l’approvazione del ddl che porta il mio nome… In esso è contenuta l’aggravante per chi commette reati all’interno delle strutture socio sanitarie. Aumentare di un terzo la pena per gli autori di gesti così ripugnanti credo sia il giusto segnale che dobbiamo dare in difesa dei nostri concittadini più fragili”.

Ciò che cattura subito la mia attenzione è il nesso logico che il Ministro esplicita fra “aumentare le pene” per simili reati e, attraverso questo provvedimento, “difendere i cittadini più fragili“. Mi chiedo in che misura si stiano realmente prendendo in considerazione quelli che dovrebbero essere gli aspetti più importanti della questione: la salute e il benessere sia degli utenti del centro accoglienza, sia delle loro famiglie, sia degli operatori che lavorano all’interno della struttura.

Qui si apre il grande capitolo “prevenzione”.

prevenzione

Dal mio punto di vista, non si fa prevenzione (specie nell’ambito sanitario) intervenendo solo sulle conseguenze giuridiche di un atto illecito. Si rischia di bypassare un imprescindibile esame a monte del problema o dei problemi che hanno portato all’accaduto, agendo esclusivamente su piani di minaccia e intimidazione che, se non adeguatamente accompagnati da altri percorsi di cambiamento e miglioramento, lasciano il tempo che trovano.

Credo che prendersi carico seriamente delle condizioni di vita degli ospiti del centro significhi guardare in modo ampio al contesto e agire per garantire il buon funzionamento generale del sistema:

  1. un clima lavorativo sostenibile e adeguato per gli operatori 
  2. un’analisi dei bisogni degli utenti e delle loro potenzialità di crescita e sviluppo
  3. un’attenzione particolare alle loro famiglie in ottica di scambio continuo e collaborazione

Si potrebbe pensare di investire maggiormente in un lavoro di equipe costantemente monitorato e supervisionato che permetta a tutti gli operatori di:

  • condividere le difficoltà concrete quotidiane nella gestione degli utenti e della struttura, per cercare insieme più soluzioni;
  • esprimere i vissuti emotivi personali nella relazione con le persone ricoverate, coi colleghi e con le istituzioni;
  • sentirsi attivamente coinvolti e chiamati in causa nell’andamento della vita del centro e dei suoi ospiti: gli operatori infatti sono sempre strettamente a diretto contatto con le persone di cui si prendono cura e meritano una voce in capitolo importante che spesso non è loro riconosciuta.

Tutto questo può facilitare una comunicazione in team chiara, diretta e costruttiva, una condivisione di punti di vista nell’ottica di un arricchimento e collaborazione reciproci,il riconoscimento e rispetto del proprio ruolo e di quelli altrui.

E può evitare situazioni estreme di stress, burn out lavorativo, inadeguata gestione delle circostanze, con gravi conseguenze che poi ricadono sugli utenti e sui loro familiari.

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Contemporaneamente, proprio gli utenti da tutelare rischiano a mio avviso di essere vittime due volte: dei maltrattamenti subiti (o che subiranno in futuro in mancanza di un’adeguata presa in carico della situazione) e del silenzio nel quale continuano ad essere prevalentemente relegati. Dare voce alle loro esigenze, ai bisogni, alle caratteristiche personali, alle potenzialità di ciascuno; dare valore alla persona nella sua interezza e unicità potrebbero essere dei passi avanti significativi per comprendere lo specifico di ogni situazione e fornire a ciascuno un servizio personalizzato realmente utile e coinvolgente.

In ultimo, ma non meno importante, la posizione della famiglia. Tra struttura ospitante e familiari è fondamentale che si crei un rapporto di interscambio sulle condizioni di salute dell’utente; una relazione di fiducia reciproca in cui gli operatori considerino i familiari fra gli “esperti conoscitori” del benessere del proprio caro, e i familiari reputino gli operatori come dei professionisti cui poter affidare con estrema sicurezza la vita dei loro congiunti. Questo equilibrio va costruito giorno per giorno e trasformato in un dialogo costante che abbia come obiettivo comune il massimo benessere dell’assistito, senza dimenticare tutti coloro che ruotano attorno a lui.

Considerando tutte le componenti essenziali prese qui in esame, credo sia possibile parlare più serenamente e consapevolmente di prevenzione. Se il faro guida del proprio lavoro è garantire a tutti le migliori condizioni di vita possibili, l’azione dev’essere congiunta e contemporanea su più fronti. Più attori sono in gioco, più il gioco è complesso, più aumentano le variabili da considerare, più le responsabilità si condividono.

CHE FATICA RILASSARSI! – Esperienza e riflessioni #Parte2

Nel post precedente ho condiviso qualche considerazione su come, a volte, prendersi del tempo per se stessi non sia così automatico e semplice come ci anticipiamo. Possono esserci molti aspetti di noi e del nostro stile di vita, utili e sensati per noi, che in qualche misura intervengono nel momento in cui decidiamo di rilassarci, di “staccare” appunto dalla routine, tanto faticosa quanto, in certi casi, rassicurante e prevedibile.

Sono molte le domande e gli spunti di riflessione sorti in merito, sicuramente ne avrete aggiunti di vostri.

In questa seconda parte dell’articolo non vado in cerca di risposte preconfezionate, soluzioni semplici o ricette uguali per tutti per riuscire a raggiungere la pace dei sensi!

Corsi di yoga e meditazioni guidate, splendidi mandala da colorare, esercizi di respirazione e visualizzazione… e molte altre proposte, sono validissime alleate per incrementare la nostra capacità di concentrazione e rilassamento.

50 modi di prendersi una pausa

La mia idea di partenza è: ognuno di noi vive esperienze magari simili ma attribuendo significati potenzialmente molto diversi; ognuno di noi può esplorare le strade più affini a sé e alla sua storia per apportare dei cambiamenti nella sua vita.

Ed è in questa complessità che possiamo provare a riconoscere la nostra unicità e a rispecchiarci negli altri.

Partendo da questo presupposto, propongo quindi una mia esperienza diretta: un esperimento recente che chiamerei “tentativo di concentrazione e rilassamento”.

Lo scenario è molto semplice: attività sportiva, esercizi piacevoli ma conosciuti e ripetitivi, ormai da tempo archiviati nella sezione “abitudine”. Istruttore che ogni tanto controlla e scandisce il ritmo. Tutto regolare, fino a quando inaspettatamente accade proprio il passaggio di cui parlavo nel primo articolo: mi accorgo di essere profondamente distratta, sto andando in automatico senza pensare a ciò che faccio, eseguendo meccanicamente dei movimenti ma priva di concentrazione su di essi e su di me in quel momento. La mente è piena di altri pensieri.

La cosa se da un lato non mi stupisce, mi rattrista. Sento che ci sono per metà e che sto “perdendo” qualcosa: la concentrazione sul mio presente, la consapevolezza del mio corpo in movimento, la possibilità di conoscermi ancora e di scoprire qualcosa di me… e il beneficio che quel tipo di attività può donarmi se la esercitassi con tutta la mia persona.

homer, pensieri

Le possibilità che immediatamente mi si aprono davanti sono almeno tre (immagino ce ne siano molte di più):

  • prendo atto della cosa, ma lascio tutto com’è, gli altri pensieri hanno la precedenza;

  • mi impegno con tutta me stessa nel prestare la massima attenzione agli esercizi per il resto della lezione;

  • escogito un atto creativo.

Ognuna di queste scelte ha significati e motivazioni dignitosi e comprensibili, non ce n’è una migliore di un’altra. Si tratta di comprenderne il senso e l’utilità personali in quel momento e decidere quale percorso si vuole provare ad intraprendere.

Nel mio caso, ho focalizzato chiaramente che:

  • non volevo ignorare la consapevolezza a cui ero giunta;

  • al contempo, se mi fossi imposta un compito di concentrazione e rilassamento “estremi” (ovvero l’opposto della distrazione di prima) sarei probabilmente scivolata molto presto in uno stato di difficoltà diffuso che mi avrebbe fatto desistere.

Ho optato per l’atto creativo. Molto semplice forse, ma con risvolti curiosi.

Per aiutarmi a concentrare la mia attenzione nel qui ed ora ho cominciato, in maniera istintiva e spontanea, ad abbinare ad ogni movimento uno scenario in cui collocarmi, un’immagine molto vivida nella mia fantasia.

Ad esempio: se l’esercizio prevedeva di allargare le braccia di lato e muoverle con gesti ampi dall’alto al basso, ho immaginato di librarmi in volo sopra una grande città, ricordandomi di un bellissimo sogno di qualche tempo fa in cui avevo vissuto questa esperienza.

Quando il movimento delle braccia è diventato simile al gesto di un vogatore, dal cielo sono passata ad una barca su un lago di montagna, visitato anni prima.

Nel momento in cui sono state le gambe a lavorare, mi sono ritrovata immersa prima nel blu profondo del mare, simile ad un sub in risalita da un’immersione. Poi nel nero di un cielo notturno cosparso di stelle, schivandone alcune particolarmente luminose!

E così via…

pescare il futuro

All’inizio non è stato facile: la tendenza alla distrazione era comunque forte e più volte ho compiuto lo “sforzo di rilassarmi”, di tornare al presente. Man mano che l’esperimento proseguiva, è aumentata la confidenza con quel tipo di visualizzazione.

Puri esercizi mentali? Credo di no. Cosa “altro” è accaduto?

Innanzi tutto, a differenza di altre lezioni, mi sono davvero divertita!

In secondo luogo ho riabbracciato ricordi e sensazioni molto piacevoli del mio passato ed ho realizzato fantasie buffe simili a quelle dei bambini, che mi hanno restituito un senso di leggerezza e possibilità.

Ho inoltre percepito vividamente che il mio corpo, incuriosito anch’esso dall’esperimento, si è “impegnato” nel sostenerlo, ha lavorato con precisione e focalizzazione.
E alla fine della sessione, osservandomi, anche i gomitoli di pensieri sulle cose da fare si erano effettivamente presi una piccola pausa. Alcuni di essi, magari i più semplici, si erano perfino un po’ sbrogliati.

Non “gridiamo al miracolo facile”! Tutto ha poi ripreso a scorrere in modo simile a prima. Ma attraverso questa piccola esperienza ho verificato che permettersi di restare con se stessi in maniera ampia e completa, rilassarsi e concentrarsi sul presente, non significa necessariamente rimanere indietro sulla tabella di marcia.

Può anche aiutare a riorganizzare creativamente quella stessa tabella: proprio come accade quando ci svegliamo al mattino avendo avuto un’intuizione notturna su un problema del giorno prima! Favorire “il vuoto” permette di “riempire” nuovamente.

Riprendo la considerazione conclusiva del primo post: l’esperimento in questione mi ha aiutato a osservare cosa cambia dentro di me nel momento in cui provo a “muovermi diversamente”. Può essere un esempio concreto, sicuramente diverso per tutti, di come partendo dal quotidiano, dall’apparentemente “semplice”, sia possibile addentrarsi in esplorazioni ben più ampie e con un riverbero significativo nella vita di tutti i giorni.

Cosa ne pensi di questo articolo? Hai domande, curiosità, esperienze da condividere?

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CHE FATICA RILASSARSI! – Istantanea quotidiana #Parte1

Vi capita mai di riuscire a ritagliarvi un momento di relax solo per voi nella frenetica routine quotidiana? Un angolino di tempo in cui riposarvi, recuperare energie, prendersi cura di sé? Per ciascuno di noi può essere qualcosa di diverso:  una passeggiata nel parco cittadino, un film da soli o in compagnia, un divano e quel libro rimasto troppo a lungo sul comodino, una giornata alle terme, una sessione di sport, una ricetta nuova da sperimentare, del rilassamento con la musica preferita in sottofondo…

relax

Qualunque sia l’attività prescelta, l’avete programmata, attesa e finalmente eccola, eccovi pronti a staccare da tutto e concedervi il meritato riposo!
E… vi capita mai di accorgervi sul più bello, a metà del paragrafo del libro, nel bel mezzo della conversazione con l’amico, o asciugandovi il sudore in palestra… che la testa è tutt’altro che sgombra, sta continuando a lavorare? I pensieri frullano continuamente al posto del sottofondo musicale: le cose da sistemare a casa, il progetto da consegnare al capo, la visita medica da prenotare, quell’impegno che proprio non vorremmo avere…
E’ come se non fossimo del tutto presenti a noi stessi e a quello che stiamo facendo in quel momento, pur trattandosi di qualcosa di piacevole e desiderato. Invece di alleggerire la mente per un po’ di tempo, spesso senza rendercene conto ci portiamo dietro dubbi, preoccupazioni, catene di riflessioni e programmi futuri che rischiano di appesantire anche la nostra pausa relax.

E’ così difficile staccare la spina?

vignetta relax

 
Senza generalizzare e provando a fare qualche ipotesi, credo possa esserlo nel momento in cui, ad esempio, farlo significa lasciare per un attimo il (presunto) controllo sulla propria vita, lasciare che le cose scorrano e si rimescolino senza la nostra continua supervisione. Questo come ci farebbe sentire?
Può essere difficile “mollare le redini” se, con un altro esempio, farlo significa pensare anche solo per un istante di non essere sempre e comunque indispensabili (la Terra gira da sola anche durante la mia ora di pilates!); o viceversa, pensare che alcune delle cose che ci distraggono non sono sempre e comunque indispensabili per noi (fra tutti i miei impegni, c’è qualcosa che posso archiviare, rimandare, tralasciare, delegare?).
Cosa rappresenta per noi sentirci “al centro del mondo” o sentire che “le cose del mondo sono sempre al centro della nostra attenzione”?
Un’altra situazione che mi viene in mente rispetto a quanto sia “faticoso rilassarsi” è ad esempio la scarsa abitudine che abbiamo, come società occidentale, a concentrarci prevalentemente sulle nostre sensazioni fisiche, sul nostro corpo, continuamente in dialogo con noi ma raramente ascoltato.
Con quali parti di noi, magari poco conosciute o spaventose, dovremmo metterci in contatto se facessimo silenzio per un attimo?
Questi sono solo alcuni spunti su cui riflettere. Possiamo chiederci se nella nostra esperienza personale rintracciamo situazioni simili e cosa rappresentano per noi; se al contrario abbiamo vissuti molto diversi, se e come siamo cambiati negli anni…

Cosa raccontano di noi le pause relax?!

pulsante relax

Non vuole essere un puro esercizio teorico, un altro complesso percorso mentale che va ad aggiungersi ai continui pensieri messi sotto la lente di ingrandimento!
Credo questa riflessione possa avere a che fare con il modo in cui ci muoviamo nella nostra vita e nelle nostre molteplici relazioni, può dirci qualcosa di noi e di come ci vedono gli altri, quali sono le nostre priorità…
Da questa maggiore consapevolezza possiamo partire, se lo vogliamo, per esplorare e sperimentare modi alternativi di vivere certe situazioni. Non solo perché ci può interessare cambiare comportamento.
Può incuriosirci anche osservare cosa accade dentro di noi, in ciò che pensiamo, in come guardiamo il mondo, se proviamo, sempre per un attimo, a fare qualcosa di diverso.
(Prosegue con #Parte2)
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