Stiamo tutti vivendo giorni, settimane che si trasformano in mesi decisamente fuori dalla famosa comfort zone: la personale “area comoda della vita” di cui noi psicologi parliamo spesso ai nostri clienti, considerando insieme la possibilità di guardare oltre, esplorare le aspettative e poi uscire per sperimentare gradualmente cosa c’è e cosa può accadere fuori. Oggi il panorama sembra capovolto. L’invito è quello a restare dentro ma non è così ovvio che quel “dentro”, salvifico da un lato, sia rassicurante e comodo per tutti.
Dentro alle proprie abitazioni nel migliore dei casi, dentro aree di isolamento preventivo, dentro agli ospedali, dentro alle case di cura, dentro alle zone rosse… Poi ci sono “dentro” metaforici ma con enormi ricadute pratiche: ad esempio stare dentro alle regole, apparentemente più stringenti del solito o forse semplicemente diverse ma che ci mettono a volte in grande difficoltà e discussione. E poi ci sono “dentro” più intimi: entrare dentro alle nostre paure, ai silenzi, alle incertezze, al nostro dolore, alla nostra fragilità, alla noia… Ma anche ritrovare passioni accantonate da tempo per mancanza di tempo, legami da ricostruire, progetti presenti e futuri da afferrare, assecondare la voglia di prendere una pausa da tutto…
Il contenitore siamo noi, il contenuto quindi è infinitamente soggettivo.
Questo lockdown, questo confinamento forzato oggi sta diventando un’esperienza condivisa, uno stop alla vita che conducevamo fino a poco fa e che se pur diversa, prima o poi riprenderà in maniera vagamente simile per la maggioranza della popolazione. Fatto salvo le tragedie umane che a causa del virus si stanno consumando e i cui effetti sociali ed economici si vedranno globalmente tra un po’ di tempo.
Ci auspichiamo di poter trarre più di un valido insegnamento per il futuro e ognuno di noi, come cittadino e come professionista, volge il faro ad illuminare ciò che più gli sta a cuore, l’area professionale di cui si occupa con le problematiche che si sollevano, ciò che vibra nelle sue corde e che lo orienterà creativamente per dare supporto e stare accanto con competenza a chi si rivolgerà a lui.
Illustrazione del fumettista Massimo Cavezzali
Ecco quindi che questa mattina ancor prima di svegliarmi, in quel dormiveglia strano in cui Morfeo dispensa gli ultimi regali prima del giorno, ho avuto una piccola ma potente epifania! Mi è apparso un numero, non da giocare al Lotto (che tra l’altro se ho ben capito è stato sospeso)! Il numero di un anno significativo della mia vita, non troppo tempo fa, in cui un evento personale ha richiesto una lunga difficile e dolorosa pausa dalle attività consuete così come le conoscevo. Una pausa a tempo indeterminato, nel senso che all’inizio non era possibile intravederne i confini; ci sono stati momenti in cui ho creduto che non si sarebbe più trattato di una pausa ma si sarebbe trasformata nella mia nuova condizione di vita. Mi veniva richiesto di fare i conti con l’evidenza di un importante cambiamento.
Esiste una fetta significativa di popolazione che sperimenta sensazioni simili tutti i giorni e da moltissimo tempo e vive oggi una duplice condizione: essere pericolosamente esposta al rischio di contagio (poiché più vulnerabile) e essere al contempo maggiormente “abituata” alla richiesta di quarantena che viene imposta, perché ahimè per loro non è un’eccezione ma quella condizione di vita che io stessa ho temuto. Sto pensando alle persone con una disabilità (sia essa cognitiva, motoria, sensoriale, congenita o acquisita), con una malattia cronica e/o degenerativa, con una patologia psichiatrica, che vivono per lo più in casa o nei centri di accoglienza, con a fianco i caregivers familiari e tutti gli operatori che sostengono i loro percorsi ri-abilitativi. Per loro spesso non esiste il vincolo di tempo di tre o quattro settimane per riprendere a immaginare una graduale normalità. Ogni singolo giorno è e sarà un traguardo: contemporaneamente speranza e sofferenza, scoperta e abbattimento, gioia nelle piccole cose e rammarico nei grandi rimpianti. A volte non hanno una cura farmacologica a loro immediata disposizione ma sono nel bel mezzo del viaggio di fiduciosa ricerca; ecco perché diventa ancor più essenziale e “curativa” la presenza, lo stare accanto, il supporto e l’intervento professionale che possiamo offrire loro, familiari compresi non dimentichiamolo.
Mi è apparso, dicevo, quell’anno stagliato sullo sfondo dei miei sogni e una voce in lontananza commentava: ciò che sul momento è sembrato un tracollo, si è rivelato poi un grande banco di prova! L’esperienza vissuta allora di restrizione delle libertà abituali, di dipendenza dall’aiuto degli altri, di assoluta incertezza sul futuro mi ricordano molto ciò che adesso è patrimonio di tutti; e questo livellamento mi accorgo che in realtà mi infonde fiducia. Fiducia nel fatto che forse potremo comprenderci di più; potremo immedesimarci ancora meglio nelle vite degli altri; potremo sentire, ad esempio, che una battaglia per conquistare determinati diritti non appartiene esclusivamente ad una categoria di persone poiché ciò che riguarda te riguarda in qualche misura anche me, se siamo connessi.
Da quella dura prova che ha rischiato di schiacciarmi, sono sbocciati percorsi alternativi molto fruttuosi: ho scelto con maggior decisione di occuparmi dell’universo disabilità, facendolo “da fuori e da dentro”, immergendomi cioè in prima persona anche negli aspetti più scomodi e dolorosi delle storie di vita. Mi sono conosciuta di più, ho tentato di prendere le distanze da tutto ciò che mi terrorizzava per poi necessariamente aver bisogno di riavvicinarmi a me stessa, caleidoscopio fatto dell’una e dell’altra forma. Personalmente sono stata molto fortunata: quell’esperienza critica è oggi un ricordo ma il senso che ha avuto per me resta senza tempo e indelebile. Ecco perché nutro fiducia nella capacità di adattamento creativo intrinseca nell’essere umano, nella possibilità di rinascere anche dalle ceneri più ardenti.
Noi psicologi e psicoterapeuti siamo oggi più che mai fortemente chiamati a crederlo, invitati a rivedere la nostra professione a servizio degli altri senza svilirla, svenderla o improvvisarla. Noi con le nostre ferite personali, con cui è bene fare i conti* non per cicatrizzarle con la forza ma per usarle assieme alle teorie, alle tecniche, alle competenze, agli aggiornamenti, per avvicinarci ancora di più alla comprensione dell’esperienza dell’altro, riconoscendo di poter “essere con”, senza sovrapporsi.
Forse è anche questa una delle sfide dell’esperienza pandemia, che assomiglia moltissimo alla sfida quotidiana di tutte le persone che soffrono per le più svariate condizioni accennate in precedenza:
scoprire di poter stare con noi stessi
accettando sia ciò che siamo
sia lo stupore di ciò che diventeremo.
[*In merito a questo c’è un bellissimo libro che mi sento di consigliare: Il guaritore ferito, di H. Nouwen]